3/3 Perché il Vaticano completa la domanda del giornalista circa i gay?
Il papa Francesco, con la sua preoccupazione pastorale, ha affrontato nel volo di ritorno da Dublino (26.8.18) la questione omosessuale. L’occasione è stata la domanda di un giornalista.
Il giornalista ha domandato: “che cosa pensa Lei, che cosa vorrebbe dire Lei a un papà, a un padre, al quale il figlio dice che è omosessuale e che vuole andare a convivere con il suo...”. Qui finisce la formulazione della domanda. Non sappiamo perché il giornalista non pronuncia il termine “marito”, anche se prima parlava del “matrimonio omosessuale”. Possiamo avanzare alcune ipotesi. Forse non vuole urtare l’orecchio dei santi con termini “sporchi”? Forse ritiene che tutti capiscano la realtà silenziosa e per secoli silenziata, senza nominarla, il che sarebbe esattamente il riflesso di quella cultura omofobica, che ci obbliga a cancellare la realtà omosessuale anche dal linguaggio e così tenerla nell’armadio: invisibile, perché ugualmente “tutti capiscono quelle cose...”. O forse si trova in difficoltà e non sa come chiamare “quello strano tipo di maschio che è unito nel matrimonio con l’altro maschio che ama” (la cultura cattolica direbbe: “amico” per non ammettere che è “compagno”, “marito”, “partner della vita”, ovvero per mentire sulla realtà che non possono cancellare in essere, dunque la cancellano nel linguaggio)? O forse è solo una semplice svista? Il problema è che tocca giusto un punto nevralgico del nostro linguaggio che può rivelare la realtà, rispettandola o omettendola nel non detto. Al riguardo, non possiamo dimenticare ciò che annotava Ludwig Wittgenstein: la realtà è il frutto del linguaggio che usiamo per descriverla. In un certo senso, nell’opinione pubblica la realtà esisterà nella maniera in cui la descriviamo e sarà limitata nella sua esistenza se non la descriviamo o travisiamo.
In ogni caso, nella trascrizione ufficiale della domanda andrebbero lasciati quei tre puntini... del non detto, del pensiero non esplicitato, così da non sapere con chi vuole andare a convivere quel figlio “che dice (non è, ma lui solo dice) d’essere omosessuale”: vuol andare a convivere con una persona che ama in armonia e pace con il suo orientamento sessuale o forse “con il suo... cane”. A sorpresa nella trascrizione preparata dal Vaticano (cioè dagli uffici del papa) arriva la soluzione! Il Vaticano completa la domanda del giornalista con il termine “compagno”, che lui non ha usato, forse perché nella domanda lui parlava del matrimonio. Pertanto, per precisione – tanto amata dal testi vaticani –, dobbiamo dire che il matrimonio forma la vita comune di due persone omosessuali che da “compagni” o “amici” passano a essere anche “coniugi” e “mariti” (o “mogli” se lesbiche). Dunque, a rigore nella domanda non si tratta più del “compagno”, ma di un regolare “marito”, come il marito del Primo Ministro dell’Irlanda, d’altronde anch’egli ricordato nella domanda del giornalista.
Nel caso di questa “correzione” del giornalista da parte del Vaticano non dobbiamo supporre delle ipotesi per capire il perché. Qui siamo in un ambiente farisaico che si gode di dominare la gente con giochi di parole, messaggi sibillini, inganni linguistici, doppi sensi, i quali si potranno sempre spiegare in senso contrario a ciò che appare. Nel presente caso quell’ambiente vaticano ricorre a una discreta violenza del linguaggio che azzittisce la realtà: “non useremo il termine ‘marito’, perché noi rifiutiamo quella degenerazione dell’amore e del matrimonio delle persone omosessuali, che per noi non esiste, ma è solo un passeggero costrutto della cattiva società secolarizzata, che non vuole capire il sano pensiero (omofobico) della chiesa”. Però, con la mania di precisione, i funzionari del sistema cadono nella propria trappola. Per non usare il termine “marito” hanno utilizzato quello di “compagno” e così hanno segnato – incoscientemente – il progresso del linguaggio ecclesiale. La chiesa ha bandito sempre anche il termine “compagno” nei confronti delle unioni tra persone dello stesso sesso, proprio per non dare la rilevanza e la dignità (di un nome) a una realtà “che non deve esistere e non può esistere”, ovvero la realtà di due uomini omosessuali che sono compagni di vita. In altri termini, anche se esistono di fatto (e sono felici), non devono essere visibili né nominabili. Devono rimanere nell’oscuro del silenzio. Tanto “non facciamo torto a nessuno, perché... tutti sanno di cosa si tratta”, ma “quella cosa” non deve ricevere una ricognizione intelligibile nel nostro discorso. Non dobbiamo abituare la gente a sentire parlare “normalmente” degli omosessuali, perché questo abbassa nella società il senso di rifiuto, di pregiudizio e d’odio, che si deve mantenere nel popolo verso i “devianti”.
Arriva il momento storico, grazie al progresso della scienza, degli ordinamenti giuridici e della sensibilità ai diritti umani, che anche nella chiesa non è più possibile di non parlare, di non nominare con termini propri ciò che riguarda l’identità e la vita della minoranza perseguitata dalla chiesa cattolica. Arrivano le domande e le richieste, che non si possono a lungo passare sotto silenzio. Dunque completando la domanda del giornalista il Vaticano ammette che nella comune vita d’amore di due gay si tratti di “compagni” e non di due che “si spacciano” per “amici” o “cugini”, perché per sopravvivere devono nascondersi davanti alla società omofoba. Il Vaticano non ammette di parlare di “mariti”, però ammette di parlare di “compagni” di vita. È un progresso, ugualmente ridicolo come i progressi che si aspettavano in qualsiasi dittatura, che falsifica notoriamente la realtà, ma è capace di suscitare grandi speranze quando “scappa” dalla bocca una verità o almeno mezza-verità, che non si riesce più nascondere senza ricadere nel ridicolo.
Una cosa simile è accaduta nel testo preparatorio del sinodo sui giovani, dove nella descrizione della situazione attuale è apparso per la prima volta in un documento pubblico ecclesiale (comunque sempre di assai basso rango e non magisteriale, ma solo preparatorio), il termine “LGBT”. Certi ambienti LGBT cattolici, per i quali sono comunque importanti diritti umani, perciò vanno sempre lodati, presentavano quella “apparizione” che riguarda la loro identità come una vittoria ecclesiale enorme. Mentre il cardinale responsabile del testo attenuava la gioia, spiegando che si era usato quel termine, perché “lo usano i giovani”, ai quali è dedicato il documento. Ciò che voleva dire è: non usiamo un termine perché rispetta lo stato dell’attuale conoscenza scientifica circa vari orientamenti sessuali e identità del genere ed è ormai il termine assodato sia nel linguaggio comune, sia in quello universitario; noi – la chiesa – usiamo quel termine solo come “parte del linguaggio dei giovani” (che gentile sforzo di sensibilità per venir incontro a quell’incomprensibile slang giovanile!).
Nell’opinione di molti, simili fatti, del tutto secondari, sarebbero i passi della riforma ecclesiale. Le strategie di molti gay cattolici vanno in questa linea che si accontenta delle briciole che cadono dalla tavola del signore tanto buono per i suoi cagnolini. Dopo la mia personale battaglia del coming out (del 3 ottobre 2015) non posso che rifiutare quella maniera di riformare l’inumana posizione della chiesa, la quale avrebbe dovuto compiere un passo radicalmente evangelico: confrontarsi con il sapere scientifico e con l’esperienza di vita che riguarda persone non-eterosessuali, ammettere il proprio errore e convertirsi. Non accetto quei giochi farisaici di burocrati che cercano un modo per dire qualcosa che ormai non si può più silenziare, ma che loro vorrebbero continuare a non ammettere e stigmatizzare e non hanno il minimo d’onestà intellettuale per convocare urgentemente una commissione pontificia, per indagare che cosa l’umanità sa sull’omosessualità (che cosa è? è una malattia, una distorsione psicologica, un’immaturità sessuale, una deformazione rispetto alla natura o un sano orientamento sessuale tra gli altri?). Dopo la sofferenza del mio solitario gesto di denuncia non potrei appoggiare le strategie di chi sarebbe felice vedermi restare nel silenzio nel covo dell’ipocrisia e aspettare se per caso “sfugge” alla chiesa in qualche suo testo ufficiale qualche parola più onesta, che finalmente affermi l’esistenza di un soggetto disprezzato, offeso e annientato, aspettando che poi si arrivi nei tempi annosi a aggiornare la posizione, ma non ammettendo né l’errore precedente, né il cambiamento, ma ingannando tutti sul fatto che la chiesa sta portando avanti “un sapiente sviluppo coerente con le sue precedenti posizioni”. Il problema è che nella chiesa le riforme di ciò che è falso, ipocrita e farisaico, in realtà si fanno sulla via di una nuova falsificazione, della ipocrisia e del fariseismo, perché la chiesa non può perdere la faccia.
Non c’è dubbio che in futuro la chiesa cambierà la sua posizione, però lo farà solo sotto la pressione del mondo esterno, che sviluppa la coscienza dei diritti umani. La chiesa non cambierà in maniera traspaente, ma nella sua maniera farisaica, ritardata, senza ammettere fino in fondo i suoi annosi errori. Non si revisionerà la maniera di riformare la chiesa: non si passerà dall’ipocrisia alla trasparenza evangelica, per una sola ragione: perché i cattolici non hanno compiuto quel cambio, ma si sono adeguati agli annosi cambiamenti marginali e secondari di una struttura patriarcale, che non vuole riprendere l’essenza evangelica del cristianesimo, ma, nonostante i cambiamenti, vuol rimanere ugualmente non evangelica. In futuro la chiesa non cambierà in maniera evangelica, nella trasparenza e radicalità della verità, perché le vittime delle sue persecuzioni mai non lo hanno compiuto in maniera chiara, pubblica e insistente, tale da non essere collaboratori del male, ma capaci di esigere dovere morale di disobbedienza alle leggi ingiuste (della chiesa).
Il dettaglio del “compagno” apparso nella domanda del giornalista è un segnale per lo sviluppo futuro della posizione anacronistica della chiesa: nei cambiamenti futuri, come primo passo la chiesa ammetterà che le “unioni civili tra persone dello stesso sesso” in realtà – noi, in quanto chiesa – non le possiamo condannare, perché non ci riguardano, ma non ammettiamo il “matrimonio”. Ricordiamo che finora la chiesa si sente autorizzata a condannare sia le unioni civili tra le persone omosessuali, sia il matrimonio egualitario, che esprime e protegge la vita comune nell’amore umano ( La Congregazione per la dottrina della fede nel 2003 ordina a tutti i battezzati: “Se tutti i fedeli sono tenuti ad opporsi al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, i politici cattolici lo sono in particolare, nella linea della responsabilità che è loro propria”). Oggi il Vaticano dà già segnali di preparare questa soluzione, grazie alla pressione dovuta allo sviluppo dei diritti umani nel mondo: il governo della chiesa ci dirà in futuro che condanna solo matrimonio, ma non più le unioni (condanna i “mariti”, ma gli importano meno i “compagni”) e forse chiederà perdono, giustificando se stessa, dicendo che la chiesa è stata prima mal informata o che lo sviluppo delle “scienze cattoliche” non sarebbe arrivato allo stato di conoscenze tale da permettere fare quella distinzione. Quella soluzione verrà comunque in drammatico ritardo e sarà fatta in maniera perfidamente farisaica, cioè senza impegnarsi per evitare gli errori in futuro e di riparare i mali provocati dagli annosi tempi di arrogante ostinazione anti-gay.
È tristemente importante notare che nella situazione presente quel futuro “progresso” non sarà conseguenza di una pressione interna da parte di persone LGBTIQ cattoliche o comunque da parte dei cattolici che hanno un minimo rispetto per i diritti umani delle persone omosessuali e non possono continuare a obbedire all’aberrazione della Chiesa in quel campo. Il progresso verrà, perché la chiesa si sentirà sempre più costretta a farlo dalla realtà del mondo, perché la realtà umana si impone e esige di essere nominata con naturalezza, rispettata e custodita. In fin dei conti riguarda gli stessi diritti umani.
A questo punto nasce una grande questione, non più secondaria.
Oggi, come persone LGBTIQ cattoliche dobbiamo riflettere seriamente in che misura i cambiamenti nella chiesa saranno o non saranno conseguenza della chiara disobbedienza contro il male subito da parte nostra. Sembra che attualmente non camminiamo in questa direzione, ma ci accontentiamo più della vegetante attesa che si compiace non con la verità, ma con inganni pubblicitari di un sistema che crolla. Invece di esigere a riparare il sistema, si prolungha al massimo la sua agonia. Dobbiamo chiederci se non siamo proprio noi – i cattolici LGBTIQ – che aiutiamo quella prolungata agonia, invece di porci dalla parte della radicalità di Cristo.
Infatti, la nostra disobbedienza civile nei confronti del male della nostra chiesa obbligherebbe il governo della chiesa ad affrontare seriamente e totalmente la realtà non con quei passi ridicoli, che hanno creato disturbo per una mattina negli uffici vaticani quando i farisei di turno pensavano a come dire e non dire chi sono quei due “disgraziati gay” della domanda del giornalista o come descrivere quei “immaturi marginati” nel documento pre-sinodale. La nostra disobbedienza al sistema farisaico obbligherebbe la chiesa a cambiare anche le vie e i metodi dei suoi “aggiornamenti”. La disobbedienza civile dei battezzati e delle battezzate all’interno della chiesa spingerebbe i suoi vertici a ripensare radicalmente. La via della disobbedienza nella Chiesa sarebbe praticabile giusto nel clima creatosi con il pontificato di Francesco e potrebbe avere successo. Altrimenti, senza la nostra “rivoluzione” di strategie continua e continuerà la via dei cambiamenti farisaici.
Gesù insegnava solo una via della conversione: quella radicale, senza ritardi e senza inganni, senza tempi di mezze-verità. Lui insegnava a non andare a patti con il male e di denunciare apertamente e pubblicamente ciò che è falso, esigendo la trasparenza della correzione. Gesù non ci permetteva di “giocare” con le parole e così “giocare” con le coscienze e le vite delle persone, dominandole a nostro piacere. Al contrario, quel “gioco” ce lo insegnavano farisei e continuano a farlo nella nostra chiesa. Gesù non “giocava” con le esistenze umane, con la natura e con la identità umana. Lui non “giocava” con la verità e non la offriva a piccole tappe o porzioni nei tempi eterni, per non smentire per caso qualcosa che sarebbe stato imposto prima. Dio-Uomo, che per la verità ha accettato la Croce, era radicale: “sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5,37).